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L’impervia difesa nelle misure di prevenzione patrimoniali e l’imprescindibile consulenza tecnica di parte.

“Non poco inquieta il progressivo ricorso a procedure sommarie ed inquisitorie, che dovrebbero restare in un ambito straordinario ed eccezionale.”

Osservo, dall’esperienza della mia attività di consulente tecnico di parte in procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniale, una certa staticità giuridica nel sistema penale italiano di tali misure, che continuano a superare indenni il vaglio costituzionale di legittimità, non raggiungendo mai quel necessario equilibrio fra l’interesse sociale alla prevenzione dei reati ed il rispetto delle garanzie processuali, innegabilmente dovute in sede processuale, in qualsiasi Stato di diritto.

Negli ultimi anni ho assistito ad un vero e proprio incremento in ascesa delle misure di prevenzione, non più limitato al contrasto delle attività della “criminalità organizzata”, ma via via sempre più estese a forme “abituali” di criminalità, di cui si ipotizza una pericolosità generica, contrapposta a quella qualificata, che assorbe le figure dell’evasore fiscale; del corruttore; del bancarottiere; ecc..

In questa evoluzione le misure di prevenzione, volte all’applicazione del sequestro ed alla successiva confisca, quale procedimento permeato dall’aspetto inquisitorio e legato alla cultura del sospetto, dalla lotta antimafia è traslato in teoria a qualsiasi forma di reato, che presenti una supposta pericolosità sociale generica. Inoltre, dal 2008, l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali è stata disgiunta da quella delle misure personali, perdendo così il ruolo di accessorietà.

Non poco inquieta il progressivo ricorso a procedure sommarie ed inquisitorie, che dovrebbero restare in un ambito straordinario ed eccezionale, ma che di fatto sono orami disciplina ordinaria, purtroppo frutto della continua degradazione del processo penale, le cui disfunzioni credo siano evidenti a tutti.

Non si può negare un fondo di verità nel definirle (già Nel 2009 -Pulitanò -diritto penale), “pene del sospetto”, perché di fatto sono provvedimenti, senza precetto giuridico, spesso molto afflittivi, il cui procedimento sommario ed indiziario non è ancorato ad una rigorosa prova della responsabilità penale, quale garanzia processuale nei confronti di chi si presume innocente sino all’accertamento tramite sentenza definitiva. Nell’attuale mondo dei media l’opinione pubblica però “apprezza” molto tali procedimenti, nell’illusione di un efficacie sistema penale.

Questo straordinario strumento consente al Pubblico Ministero, attraverso una sommaria indagine, fondata essenzialmente su elementi indiziari presunti, sia di carattere soggettivo: quale la presenza di pericolosità sociale; sia di carattere oggettivo: per la presenza di un patrimonio apparentemente acquisito con proventi illeciti da reati (sperequazione fra fonti ed impieghi), di ottenere “inaudita altera parte” un provvedimento di sequestro dei beni, in via anticipata rispetto all’udienza.

Spetterà al proposto confutare, con elementi fattuali, situazioni o eventi idonei, tale presunzione “iuris tantum”.

Qualora il proposto, la cui difesa, proprio per le caratteristiche inquisitorie e sommarie dell’istituto,  è estremamente difficile ed impervia, non sia in grado di confutare la illiceità dei fondi impiegati, subirà inesorabilmente la confisca dei tutti quei beni per i quali, la “fictio iuris” sottostante, li ritiene frutto di reati, estendendo al bene stesso la pericolosità sociale, che attraverso l’ablazione (confisca) potranno formare ancora oggetto di libero scambio.

Trattasi quindi di un istituto di eccezionale portata e gravità, specie per le misure di prevenzione patrimoniale, ove spesso la confisca di fatto prescinde dalla effettiva verifica dei coefficienti di pericolosità soggettiva ed ammette anche l’ablazione dei beni per equivalente, addirittura anche dopo la morte del proposto socialmente pericoloso o addirittura nei confronti dei terzi.

Generalmente la misura di prevenzione patrimoniale coinvolge tutto il nucleo allargato dei familiari del proposto, includendo anche altri reati, quali: il reato ex art. 512 bis c.p. qualora si ravvisassero delle intestazioni fittizie allo scopo di eludere la misura di prevenzione; il reato di riciclaggio ex art. 648 bis e ter c.p.

Appare quindi evidente che la misura di prevenzione, per lo scopo preminente di preservare il bene della “salus pubblicae”, comprime sino ad annullarli i diritti costituzionali, quali: il principio di legalità e di materialità; di presunzione d’innocenza, comportando una vera e propria inversione dell’onere della prova, spesso difficoltosa per l’elemento temporale dei fatti da accertare, che possono retroagire anche a vent’anni prima.

Per queste caratteristiche si potrebbe definire un jolly nelle mani del Pubblico Ministero.

Non si può non osservare che i vari strumenti preventivi, nonostante siano continuamente al vaglio della Corte Europea per i Diritti Umani, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, sono rimasti sostanzialmente invariati, continuando ad essere una reazione dell’ordinamento al sospetto, ma ponendosi, logicamente ed ontologicamente, in posizione arretrata rispetto al pericolo che intendono prevenire.

Quindi, attraverso la “fictio iuris” della loro natura non sanzionatoria, le misure di prevenzione eludono diversi principi assodati nel processo penale, quale ad esempio il tema del “bis in idem”. Cosicché una condanna per reato accertato non impedisce l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché, come ha affermato la Suprema Corte, non si pone il problema di una duplicazione di pena.

Per la stessa “fictio iuris”, le misure di prevenzione presentano l’insidiosa peculiarità di poter essere applicate indipendentemente dalla previa commissione di un reato, potendosi ravvisare solo un indicatore della pericolosità sociale nella probabilità che il proposto delinqui in futuro. La sua straordinaria eccezionalità gli consente di essere applicata anche dopo il decesso del proposto “socialmente pericoloso”, poiché, secondo l’orientamento giurisprudenziale, la pericolosità sociale del soggetto si trasferisce al bene, rendendolo oggetto di ablazione (confisca), indipendentemente dall’esistenza in vita del proprio titolare, al momento dell’applicazione della misura di prevenzione.

Sono solo degli esempi come la confisca di prevenzione consenta l’ablazione di interi ed ingenti patrimoni, che risultino, per via della posizione del titolare, potenzialmente sospetti o non adeguatamente giustificati sotto il profilo della liceità delle fonti.

L’applicabilità della misura anche dopo il decesso del proposto indipendentemente dall’attualità del pericolo; la previsione della confisca per equivalente, pone seri dubbi sulla sua natura non sanzionatoria, proprio perché la misura si giustifica con la prevenzione di reati da parte di colui, che viene considerato socialmente pericoloso, per l’attitudine a compiere reati.

Quanto esposto rende evidente quanto sia difficoltosa la difesa, in un processo caratterizzato da una progressiva compenetrazione tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, tale per cui i precedenti penali costituiscono gli elementi di fatto su cui si basa la prognosi di pericolosità.

La difesa dovrà per forza focalizzarsi sull’elemento oggettivo e cioè sull’accertamento delle fonti e degli impieghi, la cui perequazione neutralizza l’impianto accusatorio, spesso abbandonando il tema della pericolosità sociale, alquanto labile.

Il problema a monte della definizione della pericolosità, nel sistema preventivo, è la mancata correlazione a situazioni di pericolosità accertata in maniera forte, degradandosi a “pericolosità indimostrata”.

Per questo motivo la consulenza tecnica di parte diventa elemento imprescindibile della difesa, che si avvale delle competenze tecnico economiche del Consulente, la cui relazione, spesso aiuta anche il collegio giudicante nel comprendere gli elementi oggettivi, presupposti della misura di prevenzione.

La richiesta di sequestro generalmente si fonda su una indagine patrimoniale eseguita dalla Guardia di Finanza.

La mia esperienza mi ha portato ad individuare i punti generalmente deboli di tali indagini.

Per quanto riguarda le fonti:

  1. L’accertamento delle fonti di reddito e dell’attività economica:

l’accertamento si rivolge quasi sempre alle sole fonti di reddito derivanti dalle dichiarazioni dei redditi presentate. Spesso vi sono errori materiali di trascrizione; la mancanza di redditi assoggettati ad imposta alla fonte o esenti; la mancanza di altri elementi economici e l’incompleta rappresentazione di elementi patrimoniali, ad esempio beni o titoli presenti all’estero; rapporti e flussi finanziari, sia nell’ambito familiare che nei rapporti societari.

Per quanto riguardano gli impieghi:

  1. La duplicazione degli impieghi:

l’accertamento avviene quasi sempre dai pubblici registri beni immobili e mobili registrati; dalla fatturazione elettronica, dallo spesometro, dall’analisi delle carte di credito e dei conti correnti, dai bilanci societari depositati. L’eventuale duplicazione a volte è dovuta, in presenza degli elementi sopra indicati, all’applicazione del presunto costo medio familiare ISTAT, che rappresenta presunti impieghi per tenore di vita, quali elementi però già contenuti nelle indagini sopra indicate.

  1. Gli impieghi nelle e delle società:

spesso l’analisi si estende agli impieghi nelle e delle società, di cui il proposto o il nucleo familiare allargato è socio, senza il supporto però di analisi di bilancio. Per esempio; riclassificando lo stato patrimoniale secondo il criterio finanziario; distinguendo le fonti passive in capitale proprio e capitale di terzi per accertarne gli impieghi all’attivo; ecc.

  1. La determinazione della sperequazione fra fonti ed impieghi:

l’accertamento della sperequazione non deve riferirsi alla somma dei singoli beni. Occorre sottolineare che la giurisprudenza di legittimità ha unanimemente affermato che la verifica della sproporzione debba riferirsi al momento dei singoli acquisti il cui raffronto deve essere “oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco”, attraverso una ricostruzione storica della situazione riferita all’epoca dei singoli acquisti, che ne valuti la sproporzione rispetto ai redditi storici del proposto o del suo nucleo familiare esteso.

  1. La perimetrazione temporale:

la perimetrazione temporale consiste nel legame indissolubile fra la pericolosità del proposto con l’impiego di fonti illegittime, presupposto necessario per la misura di prevenzione. Il principio della perimetrazione temporale è ben esposto nella sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, che afferma che devono essere presenti dei requisiti, legati a precisi elementi di fatto, consistenti in delitti, commessi abitualmente in un significativo arco temporale, che abbiano effettivamente generato profitti in capo al proposto e che costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unica, o quantomeno una rilevante, fonte di reddito per il medesimo. La Corte di Cassazione tende poi ad essere alquanto stringente sulla perimetrazione cronologica, affermando che già in fase di proposta, occorre tenerne conto, sia per determinare la “sproporzione” del proposto tra fonti e impieghi, che è interna alla perimetrazione e che viene vagliata nel suo divenire, con riferimento a ciascun anno e nella forma cumulativa progressiva finale, specificando il valore da attribuire ai segni alternati, positiva e negativa, nel susseguirsi delle annate; sia per determinare l’impiego. Pertanto, secondo la Cassazione, sono suscettibili di ablazione, in termini generali, solo i beni acquisiti o, meglio, gli impieghi effettuati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità.

 

 

 

Articolo del Dott. Michele Gentile del 20 ottobre 2023