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Donazione di azioni di Holding lussemburghese e residenza italiana: CFC, rischio di esterovestizione.

L’utilizzo di società holding lussemburghesi da parte di residenti italiani solleva questioni fiscali complesse che richiedono un’analisi approfondita della normativa domestica e della prassi interpretativa.

Il presente articolo esamina un caso supposto di una holding costituita in Lussemburgo, mediante conferimento di azioni ricevute per donazione transfrontaliera. Questa semplice costruzione, spesso scelta superficialmente per i vantaggi fiscali che una SoparFi ha per le plusvalenze ed i dividendi, nella realtà comporta rischi derivanti dall’applicazione della normativa CFC, dalle contestazioni di esterovestizione, restando ovviamente fermo il principio della territorialità dell’imposizione sulle donazioni confermato dalla recente riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, operata dal D.Lgs. 139/2024, che rende non imponibile la donazione.

La struttura operativa e i suoi elementi costitutivi.

La fattispecie oggetto di analisi presenta una configurazione articolata. Un residente italiano riceve in donazione azioni di una holding lussemburghese, da un soggetto non residente in Italia. Le azioni ricevute vengono successivamente conferite in una nuova holding lussemburghese, di cui il residente italiano diventa unico socio. La holding originaria, le cui azioni formano oggetto del conferimento, detiene partecipazioni di controllo in società operative italiane.

Dal punto di vista della governance, la nuova holding lussemburghese è amministrata da un consiglio composto da due membri. Uno dei due amministratori è il residente italiano stesso, mentre l’altro è un soggetto residente in Lussemburgo. Questa composizione dell’organo amministrativo della società risulta particolarmente rilevante, ai fini della successiva analisi sui rischi di esterovestizione.

La territorialità dell’imposta di donazione: il criterio della residenza del donante.

L’articolo 2 del Decreto Legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico delle Successioni e Donazioni, TUSD) stabilisce i criteri di collegamento territoriale per l’applicazione dell’imposta sulle donazioni. La norma, al comma 2, dispone che “se alla data dell’apertura della successione o a quella della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti”.

Il criterio di collegamento rilevante è quindi la residenza del donante, non quella del donatario. Ne consegue che una donazione effettuata da un soggetto non residente in Italia non genera alcun presupposto impositivo in Italia, anche quando il beneficiario sia residente nel territorio dello Stato, salvo che la donazione abbia ad oggetto beni o diritti situati in Italia. Le azioni di società estere sono considerate beni situati all’estero ai fini dell’imposta di donazione.

Questa interpretazione trova pieno supporto per estensione analogica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Con sentenza 30 marzo 2021, n. 8720, la Suprema Corte ha statuito che “la donazione di denaro depositato, al momento dell’atto di liberalità, presso un conto corrente di un istituto di credito straniero, effettuata tramite bonifico bancario, da parte di un cittadino residente all’estero a beneficiario residente in Italia non rileva ai fini dell’applicazione dell’imposta sulla donazione in Italia atteso che, in forza del principio di territorialità di cui all’art. 2, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 346 del 1990, l’imposta è dovuta solamente per i beni e diritti esistenti sul territorio nazionale”.

La riforma operata dal D.Lgs. 18 settembre 2024, n. 139, entrata in vigore il 3 ottobre 2024 con effetti dal 1° gennaio 2025, non ha modificato questo criterio di collegamento per le donazioni ordinarie. L’unica novità rilevante in materia di territorialità riguarda i trust e gli altri vincoli di destinazione, per i quali è stato introdotto il comma 2-bis all’articolo 2 TUSD., quale regime analogo alle donazioni dirette ma calibrato sull’istituto di Trust.

Tale disposizione prevede che l’imposta sia dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti ai beneficiari quando il disponente donante sia residente in Italia al momento della separazione patrimoniale..

È quindi corretto affermare che la donazione di azioni di società lussemburghese, effettuata da un donante non residente in Italia, non è soggetta all’imposta italiana sulle donazioni, anche se il donatario è residente in Italia. Rimangono tuttavia fermi gli obblighi di monitoraggio fiscale e l’IVAFE sulle partecipazioni qualificate detenute all’estero, ovviamente a carico del donatario residente in Italia.

La holding pura tra società di comodo e normativa CFC: la necessaria distinzione.

Prima di analizzare i profili critici specifici della struttura lussemburghese, è opportuno chiarire un aspetto preliminare che potrebbe generare equivoci interpretativi. La Corte di Cassazione, con sentenza 18 gennaio 2022, n. 1506, ha affrontato la questione della qualificazione delle holding pure nell’ambito della disciplina delle società di comodo di cui all’articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724.

La Suprema Corte ha richiamato il concetto di “società senza impresa” o di “mero godimento”, qualificabili come “di comodo” quando lo strumento societario viene utilizzato impropriamente per scopi diversi da quelli previsti dal legislatore, come l’amministrazione di patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale. La finalità della normativa sulle società di comodo è contrastare la diffusione di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo.

Tuttavia, la Corte ha affermato un principio importante: per una holding pura, la verifica sull’operatività non va effettuata sulla holding stessa, ma sulle società da essa partecipate. Se le società controllate sono pienamente operative, anche la holding deve considerarsi tale. Inoltre, la mancata distribuzione di dividendi da parte delle partecipate, se dovuta a ragioni oggettive come la copertura di perdite pregresse o scelte strategiche aziendali giustificate, costituisce una causa di disapplicazione della normativa sulle società di comodo.

Questo principio giurisprudenziale potrebbe apparire favorevole alla struttura in esame, considerato che la holding lussemburghese detiene partecipazioni in società operative italiane. Tuttavia, è fondamentale non cadere nell’errore di estendere automaticamente tale principio ad altre normative tributarie aventi finalità e presupposti applicativi completamente diversi.

La normativa sulle società di comodo e la normativa CFC operano su piani distinti e perseguono obiettivi differenti. La prima rende presuntivamente imponibili le società prive di effettiva attività d’impresa, utilizzate per gestire patrimoni personali. La seconda invece ha l’obiettivo di impedire la localizzazione artificiale di redditi passivi in giurisdizioni a fiscalità ridotta, mediante società controllate estere. Ne consegue che i criteri di operatività rilevanti per l’una, non coincidono necessariamente con quelli richiesti dall’altra.

Per la normativa società di comodo, il test si basa sul raggiungimento di soglie minime di ricavi rispetto a determinati parametri patrimoniali, e l’operatività delle partecipate può essere sufficiente ad escludere la qualificazione di società di comodo. Per la normativa CFC, invece, è necessario dimostrare che la società estera controllata svolga un’attività economica effettiva mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali nel paese di insediamento. Quest’ultimo requisito non può essere soddisfatto per “relationem” attraverso l’operatività delle società partecipate, ma richiede una sostanza economica propria e autonoma della holding nel paese estero.

La normativa CFC: il rischio di tassazione per trasparenza.

Chiarita la distinzione concettuale tra le diverse normative antielusive, il primo e più rilevante profilo critico della struttura riguarda l’applicazione della normativa sulle Controlled Foreign Companies (CFC), disciplinata dall’articolo 167 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). La normativa CFC prevede che i redditi conseguiti da società estere controllate siano imputati per trasparenza ai soci residenti in Italia quando ricorrano due condizioni cumulative.

La prima condizione è l’esistenza di una situazione di controllo, che sussiste quando il residente in Italia detiene, direttamente o indirettamente, una partecipazione superiore al 50% dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria o del capitale sociale. Nel caso di specie, essendo l’unico socio della holding lussemburghese, il residente italiano si trova inequivocabilmente in una posizione di controllo.

La seconda condizione è il superamento della soglia di passive income. L’articolo 167 TUIR stabilisce che la normativa CFC si applica quando più di un terzo dei proventi della società estera deriva da categorie di redditi passivi, quali dividendi, plusvalenze da cessione di partecipazioni, interessi, canoni e proventi da proprietà intellettuale. Una holding pura, il cui patrimonio è costituito essenzialmente da partecipazioni societarie, genera proventi che rientrano quasi integralmente nella categoria del passive income.

Di conseguenza, la struttura descritta risulta pienamente soggetta alla normativa CFC. I redditi della holding lussemburghese verrebbero imputati per trasparenza al socio residente italiano, vanificando completamente l’interposizione della struttura lussemburghese. L’unica via di uscita è rappresentata dalla disapplicazione della CFC, che può essere ottenuta dimostrando che la società estera svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, sede propria.

Quindi emerge con chiarezza che il principio affermato dalla Cassazione, nella sentenza n. 1506/2022, in materia di società di comodo non può essere utilizzato per superare il test CFC. La normativa CFC richiede che la holding stessa svolga un’attività economica effettiva in Lussemburgo, con strutture e mezzi propri. Non è sufficiente che le società partecipate siano operative in Italia. La holding deve dimostrare di svolgere effettivamente, nel paese di insediamento, un’attività economica autonoma che giustifichi la sua esistenza separata.

La differenza tra la valutazione rilevante per le società di comodo e quella richiesta per la CFC può essere così sintetizzata. Per la società di comodo, l’operatività, tramite l’operatività delle partecipate, consente di escludere che la holding sia considerata una mera “scatola vuota”, utilizzata per gestire patrimoni personali. Per la CFC, anche con partecipate pienamente operative, se la holding non ha sostanza economica propria in Lussemburgo e genera passive income, è assoggettata pienamente alla normativa. Il legislatore italiano, nel recepire la direttiva ATAD, ha voluto colpire proprio le strutture che, pur formalmente esistenti all’estero, non svolgono un’attività economica reale e autonoma nel paese di localizzazione.

In genere per una holding pura, che si limita alla mera detenzione di partecipazioni, la dimostrazione della sostanza economica è estremamente difficile. Non è sufficiente la presenza di amministratori o l’esistenza di un ufficio di rappresentanza. È necessario dimostrare l’esistenza di una struttura operativa autonoma che svolga effettivamente funzioni di direzione strategica e gestione attiva delle partecipate. La prassi dell’Agenzia delle Entrate è particolarmente rigorosa nell’esame di questi requisiti sostanziali.

Il rischio di esterovestizione.

Accanto alla normativa CFC, vi è un secondo profilo critico che è rappresentato dal rischio di esterovestizione. La giurisprudenza italiana ha elaborato nel tempo una teoria secondo cui una società formalmente costituita all’estero, ma che ha in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale dell’attività, deve essere considerata fiscalmente residente in Italia. Il fondamento normativo di questa teoria è l’articolo 73, comma 3, del TUIR, che definisce residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale.

La sede dell’amministrazione è identificata con il luogo in cui sono adottate le decisioni strategiche e operative, essenziali per la gestione dell’ente. Non rileva la sede formale o il luogo di convocazione delle riunioni del consiglio di amministrazione, bensì il luogo dove si forma effettivamente la volontà sociale e si assumono le decisioni gestionali fondamentali.

Nel caso esaminato, la presenza di due elementi costituisce un fattore di rischio elevato. Il primo elemento è la qualità di unico socio del residente italiano, che determina un controllo assoluto sulla società. Il secondo elemento è la composizione dell’organo amministrativo, composto da un amministratore residente in Italia ed un amministratore residente in Lussemburgo. Se le riunioni dell’organo amministrativo si svolgono prevalentemente in Italia; se la documentazione è gestita dall’Italia; se le decisioni strategiche sono effettivamente assunte in Italia; l’Agenzia delle Entrate potrebbe sostenere che la sede effettiva dell’amministrazione si trova in Italia.

La contestazione di esterovestizione comporterebbe conseguenze estremamente gravi. La società lussemburghese verrebbe qualificata come soggetto fiscalmente residente in Italia, con conseguente tassazione worldwide su tutti i redditi ovunque prodotti. Inoltre, sorgerebbero contestazioni per l’omessa dichiarazione dei redditi prodotti negli anni precedenti, con applicazione di sanzioni e interessi.

La difesa contro una contestazione di esterovestizione richiede la dimostrazione della sussistenza di elementi sostanziali, che ancorino la società al Lussemburgo. Tra questi elementi rientrano l’effettivo svolgimento delle riunioni del consiglio in Lussemburgo, la presenza di personale locale che svolga funzioni operative, l’esistenza di una sede fisica dotata di attrezzature, la gestione dei rapporti bancari presso istituti lussemburghesi, la tenuta della contabilità e della documentazione in Lussemburgo. La mera costituzione formale in Lussemburgo e la nomina di un amministratore locale non sono sufficienti a contrastare una contestazione di esterovestizione.

Le implicazioni del conferimento e la sostanza economica.

Il conferimento delle azioni della prima holding lussemburghese nella seconda holding solleva ulteriori questioni. Dal punto di vista fiscale italiano, il conferimento di partecipazioni può costituire un’operazione realizzativa, generando una plusvalenza tassabile se il valore normale delle azioni conferite supera il loro costo fiscalmente riconosciuto. Il costo fiscalmente riconosciuto corrisponde generalmente al valore delle azioni al momento della donazione.

La normativa italiana prevede si regimi di neutralità fiscale per determinate operazioni di conferimento, ma l’applicazione di tali regimi, nelle operazioni transfrontaliere è complessa e subordinata al rispetto di specifici requisiti. In particolare, occorre verificare se l’operazione rientri nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133/CE relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, scissioni, conferimenti e scambi di azioni, e se siano rispettati i principi di sostanza economica e di assenza di motivi elusivi.

La questione della sostanza economica emerge in modo trasversale in tutti i profili analizzati. Le autorità fiscali di tutti i paesi, Italia compresa, controllano con crescente attenzione le strutture internazionali, per verificare che non costituiscano mere “scatole vuote” prive di sostanza economica. Una holding che non disponga di uffici propri, personale dedicato, autonomia decisionale reale, conti bancari locali operativi, e che si configuri come un semplice veicolo di intestazione formale controllato dall’Italia, risulta vulnerabile a queste contestazioni.

Il Common Reporting Standard e lo scambio automatico di informazioni fiscali tra Lussemburgo e Italia garantiscono inoltre che l’Agenzia delle Entrate italiana riceva automaticamente informazioni sulle partecipazioni detenute dai residenti italiani, sui conti bancari intestati alle società controllate, e su altre informazioni fiscalmente rilevanti. La struttura è quindi pienamente trasparente alle autorità fiscali italiane, che dispongono di tutti gli elementi informativi necessari per avviare eventuali accertamenti.

Gli obblighi dichiarativi e l’IVAFE.

Indipendentemente dall’applicazione della normativa CFC o dalla contestazione di esterovestizione, il residente italiano è tenuto al rispetto di specifici obblighi dichiarativi. L’articolo 4 del Decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, come modificato dalla Legge 6 agosto 2013, n. 97, prevede l’obbligo di indicare nella dichiarazione dei redditi le attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero.

In particolare, nel quadro RW del modello Redditi Persone Fisiche devono essere indicate le partecipazioni in società estere e le attività finanziarie detenute all’estero. Per le partecipazioni qualificate in società estere è dovuta l’IVAFE, l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero, nella misura dello 0,2% del valore delle partecipazioni. Costituiscono partecipazioni qualificate quelle che rappresentano una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 2% o al 20%, rispettivamente per società quotate e non quotate, ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5% o al 25%.

L’omissione o l’incompletezza delle dichiarazioni relative al monitoraggio fiscale comporta l’applicazione di sanzioni particolarmente severe. La sanzione base è pari al 3% del valore non dichiarato per ciascun anno, con un minimo di 258 euro. Inoltre, in caso di omessa o infedele indicazione nel quadro RW, i termini di accertamento sono raddoppiati, passando da quattro a otto anni. Le violazioni in materia di monitoraggio fiscale assumono particolare gravità quando le attività non dichiarate sono detenute in Stati o territori che non consentono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia.

Conclusioni.

L’analisi svolta evidenzia che la struttura di holding lussemburghese descritta, considerata superficialmente e grossolanamente uno strumento di pianificazione fiscale presenta rischi elevati sotto molteplici profili, in particolare fiscali. La combinazione di un unico socio residente in Italia, di un organo amministrativo per metà residente in Italia, unitamente alla natura di holding pura della società lussemburghese, crea una situazione particolarmente vulnerabile, sia alla contestazione di esterovestizione sia all’applicazione della normativa CFC.

Per quanto riguarda la donazione transfrontaliera, l’articolo 2 del D.Lgs. 346/1990, nel caso ipotizzato la donazione avviene da soggetto residente all’estero, in un Paese dove non vi è imposizione sulle donazioni, essendo il criterio rilevante la residenza del donante, come confermato dalla Cassazione con sentenza n. 8720/2021, non genera presupposto impositivo in Italia trattandosi di azioni di società estera.

I contribuenti che si trovano in situazioni analoghe devono valutare attentamente la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari per dimostrare l’effettiva operatività della società estera e l’autonomia gestionale rispetto al socio italiano. L’assistenza di professionisti specializzati in fiscalità internazionale è indispensabile per strutturare adeguatamente la documentazione, per gestire correttamente gli adempimenti dichiarativi, e per valutare soluzioni alternative che possono essere più aderenti ad una conformità fiscale che non generi i gravi rischi menzionati.

Riferimenti normativi e giurisprudenziali

Normativa italiana:

– D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico Successioni e Donazioni), articolo 2

– D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico Imposte sui Redditi), articoli 73 e 167

– D.Lgs. 18 settembre 2024, n. 139 (Riforma delle imposte indirette)

– D.L. 28 giugno 1990, n. 167, articolo 4 (Monitoraggio fiscale)

Giurisprudenza:

– Corte di Cassazione, sentenza 30 marzo 2021, n. 8720 (territorialità imposta donazione)

– Corte di Cassazione, sentenza 18 gennaio 2022, n. 1506 (holding pure e società di comodo)

Prassi amministrativa:

– Agenzia delle Entrate, Circolare 16 aprile 2025, n. 3 (Riforma imposte successioni e donazioni).

 

      Articolo del Dott. Michele Gentile del 31 ottobre 2025